Ryn Weaver: “Rorschach Baby” è il secondo capitolo del suo ritorno tra psiche, pop e tarocchi



Dobbiamo tornare a parlare di Ryn Weaver.

Non quella di OctaHate che cantavamo sotto la doccia nel 2015. O meglio, sempre lei, ma è come se fosse tornata da un viaggio sciamanico durato dieci anni con l'intenzione di farci mettere in discussione ogni nostra scelta di vita. (Sì, anche quella relazione tossica che pensavi di aver superato.) E lo fa con un pezzo che è un test psicologico mascherato da pop: Rorschach Baby.

Avevamo appena salutato Odin St come il ritorno di un’artista che non si piega, e già Ryn rilancia con un nuovo singolo che, come ha anticipato nella sua prima intervista dopo dieci anni di silenzio, non è solo una canzone: è un test psicologico travestito da alt-pop teatrale.

Ma per capire dove ci sta portando Ryn, bisogna tornare all’inizio. The Fool, come ci racconta nell'intervista, non è solo il titolo del suo primo album del 2015, ma un riferimento diretto alla carta n°0 dei tarocchi maggiori. (Sì, proprio quelli che la vostra amica wicca tira fuori a ogni crisi esistenziale).

Nel linguaggio simbolico dei tarocchi, il Fool rappresenta l’inizio puro, l’energia del “tutto è possibile” e la fiducia nel lasciarsi guidare dall’ignoto. È il pellegrino dell’anima, il primo passo in un ciclo che, carta dopo carta, porterà a conoscenza, cadute, trasformazioni e rinascite.

Per Ryn, quell’archetipo era perfetto. The Fool nacque in soli dieci giorni, con l’urgenza creativa di chi si butta senza paracadute nell’industria musicale. Un esordio in cui l’identità non era una gabbia ma un campo aperto da esplorare, tra ballate oniriche (Traveling Song) e pop esplosivo (OctaHate) che la imposero come una delle voci più interessanti della sua generazione. Poi, il silenzio.

Dieci anni dopo, con Odin St, quel pellegrino sembrava essersi fermato un momento, a guardare indietro. Non più lo stesso Matto spensierato, ma una viaggiatrice segnata da cicatrici, consapevolezze e la volontà di raccontare ciò che ha visto lungo la strada. Se il primo singolo era la porta che collegava passato e presente, Rorschach Baby è lo specchio deformante in cui Ryn ci costringe a guardarci. “I see you what I want to see”, canta, trasformando il test di Rorschach in una storia di proiezioni, illusioni e autoinganno.

Qui la ciclicità tossica delle relazioni diventa un loop visivo e mentale, in perfetta coerenza con il suo immaginario: Odino come archetipo, il sangue come colore ricorrente, figure femminili e simboli carnevaleschi incastrati in un mosaico narrativo che non ha nulla del misticismo da Instagram, ma la coerenza di un universo studiato nei dettagli. E negli ultimi 30 secondi il brano vira improvvisamente, facendo impazzire i fan come solo un pezzo pensato per l’arte (e non per l’algoritmo) sa fare.

Nell’intervista, Ryn racconta di aver trascorso questa decade lontana dalla musica tra terapia, introspezione e studio di simboli che oggi funzionano come bussola creativa. Un processo che ha filtrato dolore e rivelazioni fino a trasformarli in un linguaggio artistico personale. E mentre la maggior parte dei comeback si piega alle regole di TikTok con balletti imbarazzanti, lei, semplicemente, se ne fotte. Produce musica che suona simile a dieci anni fa eppure unica, fuori moda e per questo immediatamente attuale.

Il pellegrino di The Fool è tornato in cammino. Ma ora gli occhi sono ben aperti. E se Odin St era l’ingresso, Rorschach Baby è lo specchio. Il resto dell’album? Non vediamo l’ora di perderci dentro. (Seduta di terapia collettiva inclusa.)