Winona Oak: la popstar perfetta che il mondo ha scelto di ignorare




Romanticismo da antidepressivo, sussurri post-Lana Del Rey e visual da fashion breakdown.

C’è stato un momento (breve, fugace, praticamente sussurrato) in cui Winona Oak sembrava destinata a diventare la nuova voce dell’alt-pop contemporaneo. Voce bassa, vellutata, sofferta; testi taglienti mascherati da confessioni intime; visual impeccabili. Eppure niente. Zero hype, mezzo milione di views a stento, e un silenzio mediatico che neanche una comparsa di Temptation Island dopo due settimane.


Troppo pop per essere alternativa. Troppo alternativa per essere pop


Winona Oak è il classico esempio di talento lanciato nel vuoto cosmico dell’indifferenza digitale. Non è un personaggio da TikTok, non ha balletti virali, non urla il dolore in faccia alla camera. Sussurra. Evoca. Scrive bene. Fa video bellissimi. Ha una coerenza artistica che nemmeno Dua Lipa con un team da 70 persone. Eppure è finita a cantare capolavori per 12 gatti emo e una Britney Spears dissociata che balla He Don’t Love Me nei suoi reel su Instagram.

No, davvero: il momento più virale della sua carriera è arrivato perché Britney, a piedi scalzi e mascara colato, ha scelto una sua canzone come colonna sonora del suo breakdown glam. Disturbante. Tragico. Perfetto.


Tra Lana Del Rey e Marina: un’estetica consapevole


È difficile non notare l’influenza di Lana Del Rey nella musica (e nei videoclip) di Oak: l’uso di immagini nostalgiche, l’ossessione per figure maschili paterne, lo sguardo languido e smarrito. Ma c’è anche molto di Marina and the Diamonds nei suoi testi: la stessa ironia tragica, lo stesso senso di disincanto millennial, il gusto per la confessione generazionale.


Lo dimostrano canzoni come Lonely Hearts Club, che porta lo stesso titolo di una traccia celebre di Marina, e ne ricalca anche il tema:

We're the lonely hearts club / We're losing in love / We're shaking it, shaking it up
Una generazione alla deriva, alla ricerca spasmodica di appartenenza, affetto e senso. Winona non canta solo sé stessa, ma una società che anestetizza i sentimenti e glorifica l’autodistruzione.


Break My Broken Heart: quando il dolore diventa pop


Break My Broken Heart è forse la sintesi perfetta del mondo winoniano. Un inno alla resa romantica, alla consapevolezza che l’amore farà comunque male, ma va abbracciato fino in fondo. Il ritornello è una ferita aperta:

Break my broken heart / Give me all you got, all you got / Watch me fall apart, fall apart

La voce di Winona ha un timbro profondo che riecheggia Lana Del Rey nei registri più bassi ma risulta più pulita e controllata. Non c’è auto-tune che tenga di fronte a un’autenticità così brutale ed è proprio questa combinazione tra raffinatezza vocale e onestà emotiva a renderla unica nel panorama pop.


Let Me Know: la speranza fragile degli incompresi


Tra i brani più dolci e sinceri del suo repertorio, Let Me Know rappresenta forse il lato più vulnerabile di Oak. Coscritta con Ryn Weaver (altra artista sottovalutatissima), è una richiesta d’amore semplice ma potente:

So if you love me, let me know / We don’t have to fall so fast / Take it slow

Una ballata sulla paura dell’intimità, sulla speranza che qualcuno scelga di restare anche quando sa quanto sei difficile da amare.



With Myself: autosufficienza tossica in chiave bubble pop


Anche quando vira sul leggero, Winona è letale. In With Myself canta con disarmante lucidità l’autoerotismo emotivo di chi ha capito che l’amore è un suicidio lento:

I found somebody else / Now I’m fucking with myself
Sembra un inno femminista? Lo è. Ma è anche un urlo strozzato di solitudine elegante, di chi ha scelto di bastarsi perché fidarsi è pericoloso e farsi male è peggio.
È empowerment depressivo, e ce ne vorrebbe di più in questo mondo da influencer vitaminici col sorriso plastico. 


Control: tra ossessione e ironia macabra


Con Control, Winona Oak porta al limite il suo universo emotivo, esplorando il confine sottile tra amore, dipendenza e follia.
Il brano è un’ode pop alla disfunzionalità relazionale, costruita su synth pulsanti e una linea vocale che alterna dolcezza e inquietudine. Ma è nel video che Winona raggiunge una vetta di espressione visionaria: la vediamo pedinare un uomo maturo (un daddy, in perfetto stile Lana), fotografarlo di nascosto, introdursi in casa sua e perfino nascondersi sotto il letto per osservarlo. Quando lui non c’è, gioca con un manichino che rappresenta la sua fantasia su di lui: un'immagine disturbante ma anche ironicamente teatrale.


Jojo, let go: esistenzialismo in slow motion


Jojo è forse il vertice assoluto del suo songwriting: un’elegia post-pop piena di disillusione, riferimenti alla pornografia, agli psicofarmaci, all’alienazione digitale.

They say you're beautiful, one in a billion / But you're not the only one, they say that to everyone / Sex on screen, a pill for every dream / I'm not the only one

In due righe c’è tutta la nostra epoca: ipersessualizzata, sedata, ripetitiva, non unica. Siamo belli ma standardizzati, vendibili ma tossici. “Let go”, canta Winona, come se avesse già rinunciato a tutto: amore, carriera, fiducia, like.



Baby Blue: una gemma incompresa

Tra le sue canzoni più adorabili e sottovalutate, Baby Blue è quella che sembrava campionare direttamente Lana Del Rey, ma con un’estetica più nordica, glaciale. 

Oak racconta una relazione tossica e il  testo è un susseguirsi di immagini potentissime:

You were a Hollywood daydream / My beautiful sad thing
You were torn like your ripped jeans / A bird with a bad wing

C’è tutto: il culto dell’amore dannato, la dipendenza emotiva, il feticismo per l’uomo irraggiungibile da salvare, una produzione con quel tono dreamy rallentato alla Lana Del Rey prima maniera. Eppure, Baby Blue non raggiunge nemmeno il mezzo milione di visualizzazioni. Un’ingiustizia che racconta più del talento di Winona che del gusto del pubblico. 


Il pop non la merita, ma noi sì

Winona Oak è una sirena pop postmoderna, un mix tra Lana Del Rey e Marina and the Diamonds, con i testi scritti durante una seduta di psicoterapia di gruppo e la voce da angelo tossico che ha letto troppo Sylvia Plath.

Winona Oak è troppo giusta per esplodere: 

Non è cringe, quindi non fa ridere.

Non è sopra le righe, quindi non fa scalpore.

Non è virale, quindi non esiste.

Perché non urla abbastanza forte da farsi notare.

Perché non c'è nulla di trendy in una ragazza bellissima che canta a bassa voce la propria tristezza in slow motion.

Perché l’algoritmo vuole shock, non sussurri.

Il fatto che il mondo se ne sia dimenticato è una colpa che ci portiamo dietro come razza.

Quindi ascoltatela, sputtanatela sui social, fatele avere almeno il briciolo di culto che si merita.

E se non vi piace, pazienza: non siete abbastanza disfunzionali per capirla.