
Lo scorso 24 giugno, negli USA è uscito Enigma, un documentario HBO su Amanda Lear e April Ashley. Appena il trailer è andato online, su YouTube sono volati insulti, accuse di deadnaming e transfobia. Tutto questo… a giugno. In Italia, invece, la notizia è esplosa ieri, e i portali italiani si sono buttati nella mischia. Il problema? Stanno praticamente ricopiando un articolo del Washington Post datato 26 giugno, come se fosse la notizia dell’ultim’ora.
Il termine “deadnaming” non si discute: usare il nome di nascita di una persona trans è un atto violento. Ma qui non siamo davanti a un outing gratuito.
La regista Zackary Drucker non ha “scoperto” nulla: ha usato fonti pubbliche, come le memorie di April Ashley, articoli e programmi di sala degli anni ’60, quando Amanda si esibiva come Peki D’Oslo ed era dichiaratamente trans.
Queste fonti hanno un peso narrativo e documentaristico. Non è come fare outing oggi, dal nulla, a una persona che ha sempre tenuto privata la sua identità pre-transizione: è materiale d’archivio che racconta un’epoca e una carriera.
Il nome “Peki D’Oslo” e i documenti coevi non sono segreti rubati, ma pezzi di archivio già circolati in epoca non sospetta. Pretendere di cancellarli oggi è come strappare pagine da una biblioteca perché non piacciono più al protagonista.
La narrativa “Amanda vittima di deadnaming” che imperversa ora nei portali LGBT italiani appiattisce il dibattito:
- non spiega che, a differenza di chi subisce outing senza volerlo, Amanda ha costruito parte della sua leggenda proprio sull’ambiguità e, in certi momenti, su un’identità trans pubblica;
- non distingue tra il gesto tossico di rivelare un deadname per ferire e il lavoro documentaristico di citare un nome che già appare in registri, articoli e foto dell’epoca.
Amanda lo vive come un’aggressione perché, forse per la prima volta, il suo controllo assoluto sulla narrazione di sé è stato scalfito da qualcun altro.