"Patetica Spazzatura": La guerra di Amanda Lear contro il documentario HBO "Enigma"



Era inevitabile. Come uno scontro tra due pianeti, la verità dei documenti e la verità di un'artista si sono finalmente urtate, e il risultato è un'esplosione di rabbia, minacce legali e una televisione potentissima e crudele.

Il documentario HBO "Enigma" è uscito, e Amanda Lear, come prevedibile, ha definito il progetto "una patetica spazzatura". Ha accusato la produzione di averla "ingannata" in un "tentativo di 'smascherarla'", definisce "fake news" le storie sulla sua decennale amicizia con April Ashley e, soprattutto, sostiene di aver firmato un accordo che vietava esplicitamente di menzionare "tutta quella immondizia".

Dice anche che i suoi legali hanno inviato una diffida a HBO. Affermazione prontamente smentita dalla produzione, che si dichiara tranquilla, trasparente e assicura di non aver ricevuto nulla.

Ma la faccenda è molto più contorta di un banale “vero o falso”. Quella a cui stiamo assistendo è la battaglia finale di un'icona per il controllo della sua più grande opera d'arte: sé stessa.

Questo non è uno scontro tra una bugiarda e la verità, ma la collisione tra due concetti di verità opposti: quella documentale della regista Zackary Drucker, che cerca di ricostruire una storia queer con fatti e prove, e quella artistica di Amanda Lear, per cui la vita è una performance e l'artista ne è l'unica, insindacabile autrice.

Il metodo del documentario è spietato nella sua efficacia. La regista mette in scena un processo: da un lato c'è Amanda, che racconta la sua versione dei fatti; dall'altro, scorrono i documenti che la contraddicono. Lo vediamo quando narra del suo arresto per droga del '67, mentre i titoli di giornale dell'epoca urlano il nome "Peki D'Oslo". 


Lo sentiamo quando attribuisce a Brian Jones il pagamento della cauzione, mentre le testimonianze e le foto indicano che a salvarla fu un'amica fedele: April Ashley (l'amica rinnegata, la sorella artefice della sua rinascita legale). E lo vediamo di nuovo quando, per la prima volta, ammette che il cognome 'Lear' deriva da un matrimonio con un certo 'Paul', un uomo di cui finge a malapena di ricordare il nome. Quando la regista le chiede quale fosse il suo nome prima di allora, la risposta, gelida e teatrale, arriva dietro un ventaglio: "Dimenticato". Non è un vuoto di memoria. È un muro.


Ed è proprio parlando di April che la maschera, per un istante, crolla. Quando Drucker le sbatte in faccia il suo racconto che narra di come Amanda, vedendola, sia scappata in bicicletta per rinnegarla, la maschera crolla. Per un istante, il volto di Amanda Lear si incupisce, si vela di una tristezza antica, quasi un lutto. È un lampo di verità involontaria, un'eco del passato che emerge senza permesso. Un attimo dopo, il personaggio "Amanda Lear" riprende il controllo, la voce si fa tagliente e riduce April come "un'ubriacona che inventava storie".



Ma noi l'abbiamo vista, quella crepa nell'armatura. Abbiamo visto il dolore di un'amicizia sacrificata sull'altare della propria leggenda. E in quel momento abbiamo capito il prezzo altissimo che Amanda ha pagato per la sua arte. 


Le espressioni di Amanda, i suoi silenzi, i suoi scatti di stizza, sono quelli di un'artista che si rende conto, forse per la prima volta, di aver perso il controllo della sua opera. Il mistero non è più suo, è diventato di dominio pubblico.

La reazione furiosa di Amanda, la minaccia di querela, non è la semplice negazione di un fatto. È l'atto finale della sua performance. Non è una bugiarda sconfitta. È un'artista che difende la sua creazione fino all'ultimo respiro.

Ha passato una vita a raccontare la verità come un'opera d'arte.
Ora la scena è vuota, ma i riflettori restano accesi.
Fortunati noi, che per un attimo abbiamo visto il volto dietro la maschera.